Nel 1996 usciva nei negozi “Angry Machines”, settimo studio album di R.J. Dio nella sua carriera solista. In formazione con Tracy G, Jeff Pilson, Scott Warren e Vinny Appice, questo album a distanza di dieci anni viene ristampato, e riproposto nuovamente al pubblico.
“Angry Machines” è stato in realtà il classico album di transizione, un tentativo di cambiare stile da parte di Ronnie James che in realtà non fu molto apprezzato dai fans, ancora legato a dischi come “Holy Diver”, “Last In Line” e “Sacred Heart”. Più pesante e inquieto rispetto ai lavori precedenti, le vecchie tematiche fantasy (che saranno in seguito recuperate) tanto care al piccolo grande singer lasciano il posto alla vita reale, il tutto sempre a dar man forte a quel cambio di direzione che voleva infondere questo album.
Questa svolta verso l’industrial e sonorità più heavy sull’influenza di Tracy G si è dimostrata poi troppo azzardata, rappresentando sì un buon album, ma non un album di Dio, che prova anche nuove soluzioni nelle linee vocali. Brani come “Don’t Tell The Kids” e “Stay Out Of My Mind” sono forse più legati alla tradizione, e risultano infatti i migliori dell’album.
Non mancano certo qua e là buoni riff di chitarra, ma la batteria di Appice spesso e volentieri non convince, e complessivamente i toni rimangono bassi rendendo “Angry Machines” un lavoro mediocre di un grandissimo artista, se infatti già da “Institutional Man” si rimane piuttosto stupiti, canzoni come “Black”, “Big Sister” e “Dying in America” lasciano abbastanza perplessi, almeno in questo contesto.
Pur rimanendo l’influenza sabbatiana e almeno in parte quello stile inconfondibile che è il marchio di Ronnie James, questo disco non è assolutamente in grado di reggere il confronto coi precedenti, anche se si tratta di terreni e stili differenti.
Recensione di Marco Manzi
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