Mr. Zakk Wylde torna a far parlare di se stesso e in modo nient’ affatto negativo. “Mafia”, l’album messo insieme con i Black Label society se ne frega altamente di tutto e di tutti proponendo lo stile ormai celebre del granitico chitarrista, se possibile, con ancor maggiore convinzione.
“Fire It Up” apre il disco con un’ intro a base di batteria (che suona come una registrazione di 20 anni fa) e talk box assolutamente scarna, per poi prendere corpo, l’arrangiamento è semplicissimo, il compito di tenere in piedi il tutto è affidato soprattutto ad una voce molto intensa e più tirata rispetto al solito. Validissima opener.
“What’s In You” continua la dimensione quasi atemporale in cui tutto il disco si muove, fantastico il lavoro delle lyrics che trascinano l’ascoltatore anche contro il proprio volere. L’arrangiamento alterna tratti da boscaiolo a linee più aperte ottime per il chorus.
“Suicide Messiah” manda direttamente le sue referenze ai Black Sabbath, anche lo stile di canto si avvicina ulteriormente a quello di Ozzy Osbourne. Il risultato è molto interessante e porta alla memoria i tempi in cui il metal era un’idea creata per sbaglio. La parte finale del pezzo, introdotta dal basso riporta a “Planet Caravan” dei sopraccitati Black Sabbath.
“Forever Down” inizia con un carezzevolmente malinconico giro di piano con accordi di moog in sottofondo, ma si tramuta dopo poco in un altro pezzo heavy, dall’arrangiamento essenziale, poche linee di chitarra, ma che risulta comunque bello carico.
Finalmente è tempo di una ballata, dove Zakk può mostrare un altro aspetto del suo talento, “In This River” inizia con un piano simile a quello del pezzo precedente, fondamentali i rumorismi della chitarra che danno colore al pezzo. Altra prova eccellente dal punto di vista vocale. In questo brano infatti si nota che per la registrazione delle parti vocali è stata usata particolare attenzione e sono presenti spesso seconde, terze ed a volte quarte voci.
Dopo un’inizio in fade in piuttosto incalzante si delinea “You Must Be Blind”, pezzo in cui le idee valide non mancano, peccato solo per il motivetto non proprio fantastico sul quale viene cantato il tema della canzone. L’assolo con l’utilizzo di un’ octaver non aiuta molto.
“Death March” ha (giustamente) toni più cupi ed a tratti un tocco lievemente psichedelico molto ben riuscito il contrasto tra la strofa, tesa e chiusa ed il chorus che gradualmente si apre di più senza perdere però un grammo di intensità.
“Dr. Octavia” esempio peculiare delle idee partorite da quel boscaiolo di Zakk Wylde è un’ assolo senza alcuna base con l’utilizzo di un’ octaver. Il tutto non serve assolutamente a niente.
“Say What You Will” è l’ennesimo esempio che per fare buona musica lo sproloquio tecnologico-tecnocratico-compositivo non è necessario. Fantastica la progressione prechorus-chorus.
“Too Tough To Die” è il secondo brano lento, inizia con un’ arpeggio di basso che dura ostinatamente sopra il quale viene cucita una linea di chitarra come al solito semplice, ma pregnante.
“Electric Hellfire” ha un ridicolissimo inizio composto da un colpo di pistola la voce di un’ indemoniato che parla con l’ ormai presentissimo octaver. La canzone vera e propria è un brano quasi cadenzato con influenze messicane (ricorda in certi casi le sonorità dei White Zombie).
“Spread Your Wings” è piuttosto simile al brano precedente e tutto sommato non è un pezzo di cui si sentirebbe particolarmente la mancanza se non ci fosse.
Altro riferimento lampante ai Black Sabbath con “Been A Long Time”, in particolare la srtrofa richiama i lineamenti del primo disco dei quattro sabbatici capitanati da Ozzy.
A chiudere il tutto ci pensa “Dirt On The Grave” con suoni che rimandano in qualche modo al deserto. L’intro, affidata ad una chitarra acustica molto leggera che fa da sfondo ad una linea fatta col talk box, e che poi ritroveremo è stranamente commovente. Buone le parti vocali, solo qualche seconda voce risulta troppo invasiva per lo stile pacato e triste del pezzo. Molto calzante l’ assolo di chitarra acustica.
Come si è visto un bel po’ di materiale, che rischia però di risultare dispersivo. Lodevole la composizione dei brani che dimostra che c’è ancora in giro qualcuno in grado di fare musica con una chitarra e la sua voce. La registrazione ha un tocco d’antiquariato, ma sicuramente nel 1970 le chitarre non suonavano certo così grosse, per cui è più appropriato dire che si tratti di una registrazione studiatamente vintage.
Ammirevole anche l’atteggiamento mantenuto in sede di registrazione, che al contrario della tendenza “moderna” non si preoccupa maniacalmente della precisione e della pulizia delle varie parti rendendo il tutto nettamente più “vicino”.
Recensione di Lorenzo Canella
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