Ricordo chiaramente la prima volta nella quale conobbi gli Atlas Pain: Fosch Fest 2016, sul palco minore stava suonando una band a me sconosciuta, e mi avvicinai per curiosità. E li capii che in questa band elegantemente vestita e con i volti dipinti con disegni guerrieri, c’era sicuramente un grosso potenziale nascosto.
Oggi ho la fortuna di poter recensire il nuovo What the Oak Left, primo full lenght della band meneghina, dedita ad un riuscitissimo mix tra death melodico di stampo svedese, echi quasi black e una vena folk goliardica sempre presente nei brani.
Ascoltando i dieci brani del lavoro, sin dalla seconda traccia To the moon la band dichiara chiaramente i propri intenti!
Riff scandinavi veramente ben studiati, lo scream di Samuele Faulasi (che in molti frangenti ricorda il buon Alexi Lahio) che intona ritornelli super melodici da urlare a squarciagola, una sezione ritmica enorme guidata dal drummer Riccardo Floridia, che riesce sempre a far muovere la testolina dell’ascoltatore e gli inserti di tastiera mai fuori luogo e che rappresentano il quid aggiuntivo dei brani. Per non parlare delle chitarre che, prendendo spunto dai lavori più moderni degli svedesi Dark Tranquillity disegnano melodie sempre puntuali e mai banali.
Scorrendo la playlist, l’ascoltatore può accorgersi di quanto questi ragazzi, seppur proponendo in apparenza un prodotto molto derivativo, siano stati capaci di costruirsi una propria personalità musciale. Infatti se Bloodstained Sun (una delle highlight dell’album) suona molta violenta e scura, con richiami alla pura violenza sonora, la successiva Till the Dawn comes con i suoi intermezzi di tastiera diventa una classica song folk metal, concludendosi con una chitarra melodica strappalacrime, E ancora, l’anthem The storm diventa la colonna sonora che i Finntroll userebbero per ubriacarsi brindando ad Odino, in una festa goliardica senza fine.
Ecco qual’è la novità nascosta degli Atlas Pain: sembrano non aver bisogno di recitare o scimmiottare una band: gli aspetti più seriosi e quelli più tipicamente da “party band” si incontrano senza problemi nei cinquanta minuti del disco. E questa caratteristica fa si che la vita del suddetto dischetto nel lettore del metalhead di turno si allunghi ad ogni ascolto.
Oltre alle buone idee, anche l’aspetto tecnico è sicuramente di alto livello, con soluzione chitarristiche notevoli e degne di nota.
Oggi gli italianissimi Atlas Pain escono sull’italianissima e ottima label Scarlet records, che merita un plauso per aver “scoperto” le potenzialità della band.
Ma onestamente auguro che presto i nostri vengano notati da qualche etichetta internazionale, perché siamo di fronte ad un prodotto che a parere di chi scrive ha un respiro internazionale notevole.
What the Oak left entrerà sicuramente nella mia personale top ten 2017.
Date una chance a queste band tricolore che dimostrano di esserci e di voler far bene.
Il mezzo punto in più del voto numerico è stato dato perché siamo dinanzi ad un debut album, ma ragazzi: che debutto col botto!
Recensione di Manuel Molteni
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