Estremi, a loro modo melodici e fedeli alla tradizione del black norvegese fatto di blast beat, chitarre zanzarose ed urla lancinanti, i francesi Sacrarium arrivano oggi a far stampare da un’etichetta professionale quel debutto uscito nel 2009 dal titolo “March Into An Inviolable Death”. I canoni stilistici sono quelli relativamente classici di un black di fattura nordica con incursioni death, soprattutto nel sound delle chitarre, e qualche piccola sperimentazione qua e là (il finale di “Demolish By Himself”), ma che non prende mai il sopravvento sull’impatto frontale proprio del genere suonato.
A livello di paragone mi verrebbe da chiamare in causa le produzioni dei primi Dark Throne o dei moderni Watain filtrati verso l’ottica solo apparentemente semplificata degli ultimi Satyricon. I passaggi, infatti, hanno una struttura piuttosto basilare e poco stratificata, per una proposta che, in fin dei conti, risulta essere votata sostanzialmente al gelido riffing nordico che caratterizza lo stile inerente al black metal nelle sue multiformi sfaccettature.
Ci troviamo quindi di fronte ad un’uscita che farà gioire i fan del metallo nero, grezzo ed estremo, ma che non rischia mai di percorrere sentieri inesplorati, preferendo affidare la diffusione del proprio messaggio ad uno stile già perfettamente collaudato. Il tutto, in effetti, non dispiace, in quanto comunque i Sacrarium ci sanno fare, ma proprio per questo motivo si subodora un po’ quella sensazione di occasione sprecata, quel “si impegnano, ma potrebbero fare di più” che ognuno di noi nella sua più o meno lineare carriera scolastica si è sentito dire almeno una volta.
Concludendo, l’ascolto dell’album risulta più che piacevole, ma le qualità della band non vengono, almeno a giudizio di chi scrive, sfruttate appieno, dando vita ad un disco certamente ben fatto, ma che rischia di finire in fila sullo scaffale di qualche fan a rimanere a prendere polvere. Questo i Sacrarium non lo meritano, ma spetta solo a loro porre rimedio a tale situazione, speriamo che ci riescano.
Recensione di Andrea “Thy Destroyer” Rodella
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