Quale titolo migliore poteva avere il successore dello scoppiettante esordio "The Red Album" se non "Blue Record"? Titoli all'apparenza stupidi o semplicemente poco originali, all'apparenza appunto, e se invece in queste poche parole si nascondesse qualcosa di più grande e irraggiungibile?
Forse in pochi conoscerete i Baroness, band della Georgia che vede tra le proprie fila il barbuto John Baizley (conosciuto ai molti per curare le copertine di gruppi come Torche, Pig Destroyer, Skeletonwitch e tanti altri) e che dopo innumerevoli demo gia culto dell'underground sud-statunitense si è guadagnata un preziosissimo contratto con la Relapse, diventando uno dei nomi più promettenti e originali del suo roster, ipotesi confermata dall'album rosso, vera perla musicale che superò i risultati sperati. Che genere fanno? bhè difficile dirlo con delle banali etichette, questri quattro vanno ben oltre quello che è gia stato detto nel campo, nelle loro composizioni potete trovare molte cose, dallo sludge alla psichedelica, dal prog al doom, dal rock anni '70 alle atmosfere orientali, devo continuare?
Se l'esordio vi aveva lasciato a bocca aperta con le sue composizioni avvolte da quel rosso intenso, allora questa volta sprofonderete in un abisso blu, e non è per forza una cosa negativa visto che si tratta di un blu cristallino, di quelli che potresti fissare per ore senza mai smettere di rimanerne affascinato, ed è incredibile pensare che il tutto sia ricreato semplicemente da quattro musicisti, in particolarmodo dalle due chitarre, capaci di fondere in una volta sola riff sporchi ma efficaci tecnicamente, il tutto con la semplicità immediata del rock d'autore, riducendo al minimo le parti vocali per dare libero spazio all'espressione musicale. In "Blue records" potete trovare di tutto insomma, pezzi come "The Sweetest Curse", "Jake Leg" e "A Horse Called Golgotha" parlano da soli, senza contare momenti più atmosferici come "Steel That Sleeps The Eye", un vero gioiellino, e le due "Bullhead's" rispettivamente intro e outro del disco. Insomma la cosa che più centra il bersaglio di questa seconda fatica dei Baroness è l'eclettismo dell'intera titletrack e la sua scorrevolezza, per 44 minuti di musica infatti vi ritroverete letteralmente trasportati da queste stupende note, lasciandovi immedesimare da esse e dimenticandovi del mondo che vi circonda. Altra cosa sicuramente da ricordare è la sintonia dei 12 brani presenti, l'uno non potrebbe quasi coesistere senza l'altro, ne vengono fuori dei perfetti incastri outro-intro, prime su tutte le accoppiate vincenti "Ogeechee Hymnal"-"A Horse Called Golgotha" e "Blackpowder Orchard"- "The Gnashing".
Questo disco è dunque un album maturo e dal sapore tutto suo, che segna l'avvento di una band che molto presto sarà sulla lingua di molti, forse non tutti la capiranno, qualcuno la elogerà, altri la snobberanno, ma una cosa è certa, il nome Baroness non deve e non passerà di certo inosservato. Mi aspetto "Yellow's Masterpiece" come titolo del futuro nuovo capitolo, e spero che lo sia in tutti i sensi, anche se ora gia siamo sulla soglia.
Recensione di Thomas Ciapponi
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